Cass. 6375/2011
Lavoro: nullo il licenziamento se il
dipendente in malattia esce di casa su consiglio del
medico
24 marzo 2011
Corte
di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 13 gennaio – 21 marzo 2011, n. 6375
Presidente
Vidiri – Relatore Toffoli
Svolgimento
del processo
G..G. agiva con ricorso davanti al
Tribunale di Alba nei confronti della sua datrice di lavoro s.p.a. S. impugnando il licenziamento intimatogli con lettera del
29.12.2004 che faceva seguito ad una contestazione disciplinare. Con la
relativa lettera gli era stato addebitato di avere tenuto almeno nei giorni dal
29 novembre al 12 dicembre un comportamento incompatibile con la verosimile
sussistenza dello stato patologico (distorsione della caviglia destra)
denunciato come conseguente all’infortunio del 6.7.2004, chiuso il 12.8.2004 e
riaperto il successivo 4 novembre, con prognosi di 20 giorni ripetutamente
prorogata fino al 21 dicembre, oppure e comunque di
avere tenuto un comportamento pregiudizievole per un buono e rapido recupero
della integrità ed efficienza fisica.
La domanda era
accolta dal Tribunale, che dichiarava l’illegittimità del licenziamento e
condannava il datore di lavoro alla reintegrazione e al risarcimento del danno.
A seguito di appello della soc. S.,
In definitiva,
La s.p.a. S. ricorre per cassazione con tre articolati motivi. Il G.
resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno
depositato una memoria.
Motivi
della decisione
Il primo motivo
del ricorso denuncia violazione degli artt. 116, 421
e 61 c.p.c. e insufficiente e contraddittoria
motivazione, con riferimento alla rilevanza e alla attendibilità
attribuita alla deposizione del medico curante del lavoratore. Si sostiene la
dimostrazione della compatibilità di attività extra
lavorative svolte dal lavoratore durante la malattia con le esigenze
terapeutiche non può essere basata su una deposizione testimoniale, anche se di
un medico, invece che su una c.t.u..
Si lamenta anche
che non si sia dato rilievo alla prova, quanto meno
indiziaria, dello svolgimento di attività incompatibile, fornita dalla SIRE, e
che si sia affermata l’imprescindibilità della
richiesta di una visita di controllo.
Il secondo motivo
denuncia violazione e falsa applicazione dell’art.
Si ribadisce sotto il profilo della violazione dell’art. 5
legge n. 300/1970 la tesi della non necessità per il datore di lavoro del
ricorso alle visite di controllo ivi previste per la dimostrazione di
circostanze di fatto evidenzianti l’inesistenza della malattia, l’insussistenza
di un’incapacità lavorativa o l’adozione di comportamenti comportanti la
violazione del dovere del lavoratore di non pregiudicare o rallentare la
guarigione. Al riguardo si ricorda l’esito delle constatazioni compiute dal
personale investigativo incaricato dalla azienda. Si
sostiene anche che una volta provata da parte del datore di lavoro l’attività
svolta durante il periodo di malattia dai lavoratore,
spetti a quest’ultimo provarne la compatibilità con
la malattia impeditiva dell’attività lavorativa,
risultandone altrimenti l’assenza ingiustificata.
Il
terzo motivo denuncia omessa o insufficiente motivazione su un atto controverso
e decisivo per il giudizio e violazione degli artt. 1175, 1375, 2104, 2105 c.c., nonché dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 3 della l. n.
604/1966.
Si sostiene che il
lavoratore, una volta verificato, anche a seguito delle direttive, terapeutiche
del suo medico curante, di poter svolgere una vita normale, avrebbe
dovuto evitare di sollecitare ulteriori certificazioni di
inabilità al lavoro e quanto meno rendere nota tale situazione all’ente
previdenziale e al datore di lavoro.
Il ricorso, i cui
tre motivi sono esaminati congiuntamente per la loro connessione, non è
fondato.
In
effetti la sentenza impugnata è
sorretta da una motivazione adeguata e logica, oltre che immune da errori di
diritto, circa la mancanza di prova di una violazione disciplinare a fondamento
del licenziamento intimato. In particolare è stato bene
evidenziato come la malattia posta a giustificazione dell’assenza del
lavoratore abbia trovato ampio riscontro non solo nelle certificazioni
mediche relative, provenienti anche dall’Inail, ente
previdenziale pubblico, ma anche in puntuali esami strumentali corredati da
analitiche diagnosi. In questo quadro, il rilievo del giudice di merito
riguardo al fatto che il datore di lavoro avrebbe potuto
e anche “dovuto” ricorrere alla procedura di controllo della malattia prevista
dall’art. 5 legge n. 300/1970, oltre a non avere evidentemente un ruolo
essenziale nella complessiva motivazione, è interpretabile nel senso non di una
affermazione di principio di carattere generale – che come tale sarebbe
inesatto, in quanto come è pacifico in giurisprudenza l’effettiva insussistenza
della malattia certificata è dimostrabile anche al di fuori del ricorso a detta
procedura – ma nel senso che, in relazione ai margini di opinabilità sul piano
medico legale eventualmente sussistenti, come spesso accade, riguardo alla più
congrua misura della prognosi di inabilità temporanea, in pratica solo il
ricorso alla visita di controllo avrebbe potuto offrire ulteriori rilevanti
elementi di valutazione, tanto più essendo in questione un’ipotesi di illecito
disciplinare, rispetto al quale rileva anche l’elemento soggettivo.
Riguardo
all’addebito al lavoratore di avere tenuto una condotta contrastante con le
esigenze terapeutiche e di un rapido recupero, la motivazione è in via
assorbente basata sui rilievo che nessun addebito al
riguardo poteva essere mosso al lavoratore che si era adeguato alle
prescrizioni del suo medico curante. Rispetto a tale motivazione, e tenuto
anche presente che dalle indagini investigative richieste dall’attuale
ricorrente non era emerso lo svolgimento di attività
lavorative ma la ripresa di alcune attività della vita privata (spostamenti in
città a piedi e in auto per acquisti e altro), cioè di attività di una gravosità
di cui non è evidente la comparabilità a quella di un’attività lavorativa a
tempo pieno, non può ritenersi che, neanche su un piano logico e di fatto
(aspetto rilevante ai fini della logicità della motivazione), sussistesse
l’onere per il lavoratore di provare, a ulteriore conferma della certificazione
medica, la perdurante inabilità temporanea rispetto all’attività lavorativa.
Né, alla stregua della sentenza e del ricorso per cassazione, la società
datrice di lavoro risulta avere fornito, come in linea
di principio sarebbe stato suo onere, la prova di una natura degli impegni
lavorativi dell’attuale resistente idonea ad evidenziare aspetti di illogicità
e malafede nel comportamento del lavoratore.
In conclusione, il
ricorso deve essere rigettato.
Le spese del
giudizio vengono regolate facendo applicazione del
criterio legale della soccombenza (art. 91 c.p.c.).
P.Q.M.