DEPENALIZZAZIONE DEI REATI MINORI E RIFORMA DEL SISTEMA SANZIONATORIO, AI SENSI DELL'ARTICOLO 1 DELLA LEGGE 25 GIUGNO 1999, N. 205

RELAZIONE

Articolato

1. Premessa

2. Riforma del sistema sanzionatorio in materia di alimenti
2.1. Considerazioni preliminari
2.2. Trasformazione di reati in illeciti amministrativi
2.2.1. Tecnica d'intervento
2.2.2. L'esclusione dalla depenalizzazione dei reati previsti dal codice penale
e dalla legge 30 aprile 1962, n. 283
2.2.3. L'elenco delle leggi depenalizzate
2.2.4. Disciplina della sanzione amministrativa pecuniaria
2.2.5. Le sanzioni amministrative accessorie
2.2.6. Autorità competente ad applicare le sanzioni
2.3. Modifiche della disciplina sanzionatoria
2.3.1. Disposizioni penali
2.3.2. Le nuove sanzioni amministrative accessorie
2.3.3. La chiusura dello stabilimento nel caso di insussistenza dei requisiti igienico-sanitari

7. Trasformazione di reati in illeciti amministrativi
7.1. Considerazioni generali
7.1.1. Premessa
7.1.2. Previsione di sanzioni accessorie
7.1.3. Coordinamento con le ipotesi di reato
7.2. Gli interventi di depenalizzazione
7.3. Autorità competente ad applicazione le sanzioni
7.4. Fattispecie già depenalizzazione o non più in vigore

8. Modifiche alla legge 24 novembre 1981, n. 689
8.1. Reiterazione delle violazioni
8.1.1. Premessa
8.1.2. Il nuovo istituto della reiterazione amministrativa
8.2. Aggiornamento del limite minimo delle sanzioni amministrative pecuniarie
8.3. Attribuzione al giudice di pace della competenza in materia di opposizione all'ordinanza-ingiunzione

9. Disposizioni transitorie e finali

1. Premessa.

Il presente decreto legislativo dà attuazione alla delega conferita dall'articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205, che - nel quadro di un complesso di interventi collegati all'istituzione del giudice unico di primo grado ed intesi a restituire efficienza al "servizio giustizia" - demanda al Governo di adottare, entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge di delegazione, un decreto legislativo per la depenalizzazione dei reati minori e per la riforma della disciplina sanzionatoria nelle materie indicate negli articoli 3, 4, 5, 6, 7 e 8 della medesima legge, nonché per attribuire al giudice di pace la competenza in materia di opposizione all'ordinanza-ingiunzione di cui agli articoli 22, 23 e 24 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

Il decreto legislativo è ripartito in otto titoli, i primi sei dei quali dedicati alla depenalizzazione ed alla riforma del sistema sanzionatorio nei singoli settori interessati (alimenti, navigazione, circolazione stradale, violazioni finanziarie, assegni, altri interventi di depenalizzazione), il settimo alle modifiche della legge fondamentale in materia di sanzioni amministrative (la legge 24 novembre 1981, n. 689) e l'ultimo alle disposizioni transitorie e finali.

2. Riforma del sistema sanzionatorio in materia di alimenti.

2.1. Considerazioni preliminari.

Il titolo I del decreto provvede alla riforma della disciplina sanzionatoria in materia di produzione, commercializzazione e igiene degli alimenti e delle bevande, nonché di tutela della denominazione di origine dei medesimi, sulla base dei principi e criteri direttivi stabiliti dall'articolo 3 della legge delega. Esso si compone di due capi, attinenti rispettivamente alla trasformazione dei reati in illeciti amministrativi ed alle modifiche del sistema sanzionatorio nel suo complesso.

Ai fini di una migliore comprensione degli interventi attuati, giova richiamare preliminarmente l'attenzione sulle caratteristiche del sistema sanzionatorio in discorso, il quale - in conseguenza della accentuata frammentazione delle fonti, connessa anche alla "comunitarizzazione" della materia - si presenta come la risultante di una legislazione "alluvionale", frantumandosi in un pletorico apparato di previsioni punitive, molte delle quali di contenuto omologo o strettamente affine. Tale particolarità rende particolarmente frequente il fenomeno della "convergenza" di una pluralità di norme sanzionatorie su un medesimo fatto: fenomeno inquadrato dalla giurisprudenza ora nel paradigma del concorso apparente di norme, e dunque risolto tramite l'applicazione del principio di specialità; ora, invece, in quello del concorso formale di reati.

Nella complessiva ipertrofia del comparto, si stagliano tuttavia alcune norme incriminatrici, che fungono da termini essenziali di riferimento sul piano sistematico e politico-criminale. Si tratta, anzitutto, delle disposizioni del codice penale che colpiscono manipolazioni o frodi alimentari pericolose per la salute pubblica (articoli 439, 440, 441, 442, 444 e 452), o che proteggono la genuinità degli alimenti e la buona fede dei consumatori (articoli 515, 516 e 517).

Nella cornice della legislazione speciale, un ruolo-chiave è tuttora svolto dalla legge 30 aprile 1962, n. 283, la quale punisce violazioni concernenti la genuinità, integrità e purezza dei prodotti indipendentemente dal fatto che ne sia derivato un concreto pericolo per una cerchia potenzialmente illimitata di soggetti, fornendo, così, una protezione complementare ed "avanzata" rispetto a quella apprestata dai reati del codice penale, in quanto collocata sulla linea del mero pericolo astratto.

2.2. Trasformazione di reati in illeciti amministrativi.

2.2.1. Tecnica d'intervento.

Nell'ambito del capo I del titolo I dello schema, l'articolo 1 esordisce dando attuazione alla prima e fondamentale direttiva parlamentare in tema di depenalizzazione: direttiva che - in aderenza alle accennate caratteristiche del sistema - prevede la trasformazione in illeciti amministrativi di tutti i reati in materia alimentare contemplati dalle leggi speciali, fatta eccezione soltanto per le violazioni di cui agli articoli 5, 6 e (in parte) 12 della citata legge 30 aprile 1962, n. 283 [articolo 3, comma 1, lettera a)].

A tal riguardo - scartata senz'altro l'ipotesi di una modifica puntuale delle singole norme incriminatrici, praticamente inattuabile a fronte dell'elevatissimo numero di fattispecie coinvolte - si è prospettato il preliminare problema della individuazione della più acconcia soluzione tecnica per definire l'area dell'intervento.

Si prospettavano, difatti, due alternative: la prima rappresentata da una elencazione "chiusa" delle leggi recanti le violazioni depenalizzate; la seconda da un generico richiamo al loro oggetto, sostanzialmente reiterativo della formula della legge delega. Entrambe le soluzioni presentavano peraltro controindicazioni, con possibili implicazioni negative anche di carattere costituzionale.

L'elenco "chiuso" avrebbe scontato infatti ineluttabilmente, di fronte all'ampiezza ed all'estrema frammentazione dell'apparato punitivo, il rischio della "lacuna" e della connessa insorgenza di questioni di legittimità costituzionale - sotto il profilo del mancato (integrale) rispetto del criterio di delega - riguardo alle disposizioni sanzionatorie non comprese nell'elencazione e che, ciò nondimeno, potessero ritenersi appartenenti all'arcipelago avuto di mira dal Parlamento.

Il generico riferimento alla materia - sebbene corrispondente ad una tecnica già sperimentata in occasione di precedenti depenalizzazioni (si pensi, ad esempio, all'articolo 39 della legge 24 novembre 1981, n. 689, con riguardo alle violazioni finanziarie) - scaricherebbe per converso sul giudice il compito di identificare in concreto le singole violazioni trasformate in illecito amministrativo, con possibili ripercussioni negative sul piano della certezza del diritto, segnatamente laddove ci si trovi al cospetto di fattispecie criminose dalla incerta oggettività giuridica o a carattere "plurioffensivo" (che tutelino, cioè, accanto agli interessi tipici della materia alimentare, anche interessi di diversa natura: ad esempio, fiscali).

A fronte di tali difficoltà, si è ritenuto quindi di dover ricorrere ad un criterio "misto": si è previsto, cioè, che la depenalizzazione investa, in primis, il complesso delle violazioni contemplate dalle leggi indicate in apposito elenco allegato al decreto legislativo, accompagnando tuttavia tale previsione con una norma "di chiusura", che estende la depenalizzazione stessa anche alle violazioni non comprese nell'elenco ma comunque attinenti alla materia considerata (fatta eccezione - s'intende - per i reati previsti dal codice penale e dalla legge n. 283 del 1962, così come stabilito dal legislatore delegante).

Tale soluzione presenta il duplice e correlato vantaggio di neutralizzare l'accennato pericolo della lacuna, restringendo, al tempo stesso, i problemi interpretativi connessi all'individuazione dell'oggetto delle violazioni in un ambito puramente "residuale" rispetto ad una indicazione comunque largamente comprensiva.

2.2.2. L'esclusione dalla depenalizzazione dei reati previsti dalla legge 30 aprile 1962, n. 283.

A mente dell'articolo 3, comma 1, lettera b), della legge delega, il mantenimento delle sanzioni penali per le violazioni previste dagli articoli 5, 6 e 12 della legge n. 283 del 1962 deve aver luogo "anche in deroga al principio di specialità di cui all'articolo 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689" (disposizione, questa, che, come è noto, sancisce che nel caso di convergenza di norme penali e norme sanzionatorie amministrative sul medesimo fatto, si applichi la sola norma speciale).

La riprodotta istruzione parlamentare rende necessaria una modifica del terzo comma del citato articolo 9 - ove già si contiene una previsione derogatoria specificamente riferita ai fatti puniti dalla legge n. 283 del 1962 e che, peraltro, secondo l'interpretazione più diffusa, opera esclusivamente "a ritroso" (sancendo, cioè, la prevalenza delle norme penali di tale legge sui soli illeciti depenalizzati dalla legge n. 689 del 1981 o da provvedimenti ancora precedenti) - al duplice fine di limitare, per un verso, la previsione stessa ai nuovi e più ristretti ambiti della responsabilità penale, e di generalizzarne, per l'altro, l'operatività in rapporto a tutte le norme sanzionatorie amministrative in materia di alimenti, siano esse "originarie" o frutto di "depenalizzazione" (articolo 95 del decreto).

Nella formulazione dello schema preliminare di decreto si era in verità ritenuto, sulla base di un ragionamento a fortiori, di dover estendere expressis verbis il principio di prevalenza sugli illeciti amministrativi in materia alimentare anche alle disposizioni incriminatrici del codice penale (articoli  439, 440, 441, 442, 444, 452, 515, 516 e 517). La statuizione è stata tuttavia soppressa in accoglimento della richiesta formulata dalla Commissione giustizia del Senato: richiesta basata - oltre che sul rilievo della mancanza di diretti agganci all'operazione nei criteri di delega - anche e soprattutto sulla considerazione della sostanziale superfluità dell'enunciato, apparendo dette disposizioni incriminatrici destinate comunque a prevalere sugli illeciti amministrativi a fronte della loro particolare strutturazione (la quale contempla un evento di pericolo concreto con carattere "specializzante", ovvero, nel caso degli articoli 515, 516 e 517, prevede un aggravamento di pena allorché le condotte represse risultino lesive dell'interesse protetto dal riconoscimento della denominazione di origine del prodotto alimentare o dall'individuazione delle relative caratteristiche: infra, § 2.3.1).

2.2.3. L'elenco delle leggi depenalizzate.

Passando con ciò all'esame dell'elenco delle leggi depenalizzate - che include la stessa legge n. 283 del 1962, relativamente alle violazioni diverse da quelle previste dagli articoli 5, 6 e 12 - può segnalarsi come l'elencazione, in linea con la strategia di intervento adottata (retro, § 2.2.1), valga a risolvere normativamente possibili incertezze circa l'ambito della depenalizzazione.

A qualche perplessità avrebbe potuto dar luogo, così, il decreto del Presidente della Repubblica 23 agosto 1982, n. 777, in materia di imballaggi: l'inserimento nell'elenco si giustifica peraltro agevolmente con la considerazione che si tratta di oggetti destinati a venire a contatto con gli alimenti e che possono condizionarne sfavorevolmente la salubrità o le caratteristiche organolettiche.

Dubbi sarebbero potuti sorgere anche in ordine alla legge 15 febbraio 1963, n. 281 e al decreto legislativo 3 marzo 1993, n. 90, entrambi in materia di mangimi, nonché al decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 119, in materia di medicinali veterinari. Si tratta, invero, di un complesso di norme sostanzialmente omogenee, che riguardano l'alimentazione o la cura degli animali vivi, finalizzate ad evitare la presenza di residui indesiderati nei prodotti che ne derivano. Proprio tale finalità legittima peraltro ampiamente l'inclusione nella sfera della depenalizzazione, tenuto conto anche del corrente orientamento giurisprudenziale che riconduce l'animale (anche vivo) al concetto di sostanza alimentare o destinata all'alimentazione.

Quanto alle leggi in materia di antiparassitari (decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1988, n. 223) e di fitosanitari (decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 194), va rilevato che esse riguardano prodotti utilizzati in agricoltura e, dunque, incidenti su cose destinate all'alimentazione. D'altra parte, a conferma della correttezza della scelta di includerli nell'elenco, sta la circostanza che degli antiparassitari si occupano anche gli articoli 5, lettera h), e 6 della legge n. 283 del 1962, in materia di residui.

In definitiva, con riguardo all'insieme di provvedimenti normativi ora specificati, la selezione si è ispirata al criterio per cui, se è imposta la depenalizzazione delle fattispecie che attengono in via immediata ai prodotti destinati all'alimentazione, a maggior ragione vanno depenalizzate le fattispecie che - nella prospettiva della salvaguardia della genuinità e della salubrità degli alimenti - ineriscono a sostanze o materiali destinati a confluire o ad influire su questi ultimi (e che, perciò stesso, si collocano su una linea più remota rispetto all'offesa del bene protetto).

Nell'elenco è stato altresì inserito - su concorde indicazione delle Commissioni parlamentari delle due Camere - il decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 336 (recante "attuazione delle direttive 96/22/CE e 96/23/CE concernenti il divieto di utilizzazione di alcune sostanze ad azione ormonica, tireostatica e delle sostanze b -agoniste nella produzione di animali e le misure di controllo su talune sostanze e sui loro residui negli animali vivi e nei loro prodotti").

Posto, infatti, che tale decreto (il cui articolo 32 prevede sanzioni penali) incide su materia già disciplinata dal decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 119 (emanato esso pure in attuazione di obblighi comunitari ed incluso nell'elenco), si è ritenuta non ostativa all'operazione la circostanza che il provvedimento sia entrato in vigore in data successiva rispetto alla legge di delegazione, stante la speciale previsione dell'articolo 20 di quest'ultima, a mente della quale "i riferimenti a provvedimenti normativi contenuti nella presente legge e nei decreti legislativi da essa previsti sono estesi ai successivi provvedimenti di modificazione".

Escluso, invero (perché il sistema delle fonti non lo consente), che il legislatore delegante abbia inteso vincolare il legislatore futuro a non ricorrere allo strumento penale nelle materie specificamente individuate, il riferimento della norma ora citata ai "decreti legislativi ... previsti" dalla legge delega deve considerarsi - come confermato dalle Commissioni parlamentari - diretto ad abilitare il legislatore delegato ad incidere anche sui provvedimenti normativi entrati in vigore successivamente alla legge di delegazione e nelle more dell'emanazione dei decreti delegati: e ciò nell'ottica di assicurare la razionalità e la coerenza del sistema, comprendendo nell'area di riassetto anche i mutamenti del panorama normativo verificatisi medio tempore.

Si è ritenuto, per converso, di dover escludere dalla depenalizzazione talune disposizioni che, pur attenendo a prodotti alimentari, tutelano un interesse di natura diversa da quello avuto di mira dall'articolo 3 della legge delega.

In particolare, si sono escluse la legge 16 giugno 1960, n. 623, in tema di disciplina fiscale della produzione della margarina destinata all'industria alimentare, la legge 28 marzo 1968, n. 415 e l'articolo 2 della legge 7 agosto 1986, n. 462, sul regime fiscale degli alcoli, nonché l'articolo 16 del decreto-legge 11 gennaio 1956, n. 3, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 marzo 1956, n. 108, concernente i controlli effettuati dall'autorità finanziaria sulla bolletta di trasporto del vermouth e degli altri vini aromatizzati (disposizioni rispetto alle quali assume un ruolo preminente la tutela di interessi dell'erario); la legge 24 luglio 1985, n. 401, in materia di pegno del creditore sui prosciutti (che protegge i diritti di credito); il decreto legislativo 25 gennaio 1992, n. 73, in tema di prodotti che, avendo un aspetto diverso da quello che sono in realtà, compromettono la salute o la sicurezza dei consumatori (in questo caso la tutela non si appunta su prodotti alimentari, ma su prodotti che, per definizione, non sono tali, anche se confondibili con essi).

2.2.4. Disciplina della sanzione amministrativa pecuniaria.

Gli articoli 2 e 3 dello schema determinano le sanzioni amministrative - rispettivamente, pecuniarie ed accessorie - destinate ad applicarsi agli illeciti depenalizzati in luogo delle originarie pene criminali.

Riguardo alle sanzioni pecuniarie, la direttiva parlamentare di prevedere una sanzione "graduata in rapporto alla gravità degli illeciti" [articolo 3, comma 1, lettera a), della legge delega] è stata attuata - in conseguenza della necessitata opzione per una depenalizzazione di tipo "generale", che esclude interventi parametrati sul disvalore delle singole violazioni - fissando tre soglie rapportate al tipo di pena in precedenza comminata per la violazione (sola pena pecuniaria; pena pecuniaria alternativa alla pena detentiva; pena detentiva sola o congiunta alla pena pecuniaria) e distinguendo ulteriormente, nell'ambito delle ultime due fasce, a seconda dell'entità della pena detentiva (inferiore o superiore a un anno).

Il comma 2 dell'articolo 2 detta, poi, criteri particolari con riferimento alle violazioni che risultino punite con pena pecuniaria proporzionale, la quale viene "convertita" in sanzione amministrativa pecuniaria anch'essa proporzionale, congruamente aumentata (rispettivamente di un terzo o della metà) laddove la predetta pena fosse prevista in via alternativa o congiunta alla pena detentiva. Si è ritenuto, infatti, che la sanzione proporzionale - variamente configurata dalla legge speciale, ma comunque espressiva di un meccanismo di adeguamento automatico della risposta punitiva al "danno" obiettivo provocato dall'illecito - rappresenti, proprio per questo, un efficace strumento sanzionatorio, specie sul versante amministrativo.

Si è ritenuto, per altro verso, che in rapporto alle violazioni punite con sanzioni proporzionali non debba applicarsi il limite fissato in via generale dalla legge delega all'importo delle introducende sanzioni amministrative pecuniarie (lire duecento milioni). Posto, infatti, che la previsione di un tale limite depotenzierebbe in molti casi l'efficacia delle sanzioni considerate, è sembrato possibile interpretare il silenzio serbato dal legislatore delegante sulla sorte delle pene proporzionali come indicativo della volontà di non derogare al principio generale dettato dall'articolo 10 della legge n. 689 del 1981, in forza del quale, come è noto, le sanzioni amministrative proporzionali "non hanno limite massimo".

Va da sé, per contro, che qualora limiti minimi o massimi fossero già previsti con riferimento all'originaria pena proporzionale, essi continueranno ad operare (con gli aumenti stabiliti) anche in rapporto alla sanzione amministrativa "sostitutiva".

2.2.5. Le sanzioni amministrative accessorie.

L'articolo 3 dello schema si occupa delle sanzioni amministrative accessorie per le violazioni depenalizzate, sulla scorta dei principi ricavabili dalle lettere a), c) e f) dell'articolo 3 dalla legge delega.

Il comma 1 stabilisce - conformemente alla direttiva di cui alla lettera f) - che le pene accessorie previste per le violazioni depenalizzate si trasformino in sanzioni accessorie amministrative e che continuino ad applicarsi nei casi e nei modi stabiliti dalle disposizioni che le prevedono.

Nei casi, non infrequenti, nei quali l'originario presupposto di applicazione delle pene accessorie sia rappresentato dalla recidiva, le sanzioni amministrative accessorie che le surrogano opereranno nelle ipotesi di reiterazione delle violazioni, nei sensi stabiliti dal nuovo articolo 8-bis della legge n. 689 del 1981, aggiunto dall'articolo 94 del decreto (articolo 3, comma 1, secondo periodo), e, dunque, in pratica, allorché l'agente abbia commesso nei cinque anni precedenti altri illeciti amministrativi della stessa indole (infra, § 8.1). Il concetto di recidiva in senso penalistico (che prescinde dal requisito della "medesimezza" dell'indole della violazione, basandosi sulla mera esistenza di una precedente condanna: articolo 99, primo comma, del codice penale) non avrebbe potuto essere per vero trasferito sic et simpliciter sul terreno della tutela amministrativa senza provocare evidenti scompensi: tale operazione avrebbe reso infatti applicabile una sanzione accessoria nei confronti dell'autore di una violazione (depenalizzata) in materia alimentare per il semplice fatto di essersi reso in precedenza responsabile di una qualunque altra violazione amministrativa, ancorché di natura diversissima (ad esempio, al codice della strada). L'esigenza specialpreventiva sottesa all'istituto penalistico della recidiva (contenere la capacità a delinquere di un autore non più "primario") non si riscontra evidentemente, con analoga intensità, sul versante degli illeciti amministrativi, la cui sfera è così ampia da non giustificare razionalmente un incremento sanzionatorio per la mera esistenza di precedenti violazioni dello stesso tipo, anche se attinenti a tutt'altra sfera di tutela.

Indipendentemente, comunque, dalla pregressa previsione di pene accessorie, i commi 2 e 3 dell'articolo 3 introducono, per le violazioni depenalizzate - in ossequio alle statuizioni delle lettere a) e c) dell'articolo 3 della legge delega - le sanzioni amministrative accessorie della chiusura temporanea o definitiva dello stabilimento e della revoca della licenza, dell'autorizzazione o dell'analogo provvedimento amministrativo che consente l'esercizio dell'attività (viene così opportunamente ampliato ed esplicitato il generico concetto di "licenza", cui è cenno nella legge delega, onde tener conto della multiforme denominazione che, in base alla legislazione in vigore, può assumere il provvedimento avuto di mira).

Nel silenzio della legge delega circa il carattere obbligatorio o discrezionale delle sanzioni accessorie in argomento, si è ritenuto di dover optare per la soluzione della discrezionalità, la quale, se per un verso è conforme all'indicazione di sistema desumibile dall'articolo 20 della legge n. 689 del 1981, consente per l'altro all'autorità amministrativa di parametrare la risposta sanzionatoria sulle singole contingenze concrete, evitando una rigidezza applicativa inopportuna in rapporto alla gravità delle sanzioni stesse. Si tratta di una soluzione che trova conforto, sul piano dell'interpretazione della legge delega, anche nella circostanza che il carattere obbligatorio della chiusura dello stabilimento o dell'esercizio è viceversa espressamente stabilito dall'articolo 3, lettera e), in rapporto all'ipotesi di accertamento dell'insussistenza dei requisiti igienico-sanitari richiesti ai fini del rilascio della relativa autorizzazione (infra, § 2.3.3).

Riguardo alle sanzioni accessorie in argomento sono prefigurate - sempre in conformità alle previsioni della legge delega - due condizioni alternative di applicabilità.

La prima - in presenza della quale è possibile irrogare la sanzione accessoria della chiusura temporanea dello stabilimento o dell'esercizio (da un minimo di cinque giorni ad un massimo di tre mesi), ovvero quella della sospensione (fino ad un massimo di tre mesi) della relativa licenza o provvedimento similare - è rappresentata dalla reiterazione "specifica" delle violazioni, che ricorre, a mente del citato articolo 8-bis, terzo comma, della legge n. 689 del 1981 (sub articolo 94 del decreto), nel caso di identità della disposizione più volte violata. La soluzione è in linea con l'indicazione ricavabile dal raffronto tra il criterio di delega di cui alla lettera a) dell'articolo 3 - nel frangente attuato - e quello di cui alla lettera c), laddove, con riguardo alla prevista introduzione di nuove pene accessorie per i reati di cui agli articoli 5, 6 e 12 della legge n. 283 del 1962, si fa riferimento alla reiterazione "anche non specifica" delle violazioni.

Il secondo presupposto - che rende applicabili, anche di fronte ad una violazione primaria, la sanzione accessoria della chiusura definitiva dello stabilimento o dell'esercizio e quella della revoca della licenza o provvedimento similare - è di natura composita: si deve trattare, cioè, di fatti di particolare gravità e dai quali sia altresì derivato pericolo per la salute [articolo 3, comma 3, dello schema, attuativo della disposizione di cui alla lettera c) dell'articolo 3 della legge delega].

Nel parere formulato dalla Commissione giustizia della Camera si è espresso, per vero, il timore che la chiusura definitiva dello stabilimento - tanto nei casi in cui è prevista come sanzione amministrativa accessoria, quanto in quelli in cui è configurata come pena accessoria (infra, § 2.3.1) - possa risultare non sempre proporzionata alla effettiva gravità del fatto, e si è conseguentemente suggerito, anche a fini di salvaguardia degli interessi occupazionali, di limitare la misura al periodo di tempo necessario alla rimozione delle cause che hanno dato origine all'illecito.

Il suggerimento, al di là di ogni valutazione di merito, non è parso peraltro accoglibile in rapporto alle indicazioni ricavabili dai criteri di delega. Che la "chiusura dello stabilimento", cui è riferimento nell'articolo 3, comma 1, lettera c), della legge n. 205 del 1999, debba intendersi come chiusura definitiva lo si ricava agevolmente dal confronto con la lettera a) - laddove l'omologa misura è qualificata espressamente come temporanea - nonché dalla circostanza che la previsione, in due diversi passaggi della norma di delega [le lettere a) e c), per l'appunto], dell'applicabilità della chiusura in rapporto ai medesimi illeciti amministrativi si giustifica solo postulando una differente caratterizzazione della misura stessa: temporanea, cioè, nella concorrenza dei presupposti indicati dalla lettera a), definitiva nella concorrenza di quelli, più stringenti, previsti dalla lettera c). Ad ulteriore conforto, vale inoltre osservare, sul piano sistematico, come la chiusura definitiva dello stabilimento per provvedimento dell'autorità sanitaria, nei "casi di maggiore gravità" delle violazioni, sia già prevista dall'articolo 15, primo comma, della legge n. 283 del 1962: norma, questa, fatta espressamente salva dall'articolo 9, comma 1, lettera e), della legge delega. Né, per altro verso, appare consentito introdurre meccanismi di sospensione o di revoca del provvedimento di chiusura, pur definitiva, basati sulla "messa alla prova" del responsabile in vista della "regolarizzazione" dell'attività produttiva, in quanto a tali meccanismi non è cenno nella legge delega, se non a proposito della speciale ipotesi chiusura prevista dalla citata lettera e) dell'articolo 9.

Pur tuttavia, si è ritenuto di dare eco alle preoccupazioni manifestate dalla Camera rendendo la misura della chiusura definitiva dello stabilimento sempre facoltativa: e ciò non soltanto nei casi in cui essa consegua come sanzione amministrativa accessoria agli illeciti depenalizzati (ipotesi nella quale la facoltatività era già prevista dallo schema preliminare di decreto), ma anche nei casi in cui essa acceda, come pena accessoria, alla condanna per i reati di cui agli articoli 5, 6 e 12 della legge n. 283 del 1962 (ipotesi rispetto alla quale lo schema preliminare prevedeva, di contro, in presenza di determinati presupposti, l'automaticità). Il regime di generalizzata facoltatività vale, invero, a mitigare sensibilmente le accennate preoccupazioni, in quanto consente all'autorità competente all'adozione della misura di tener conto, nell'esercizio del relativo potere discrezionale, anche degli interessi confliggenti con la chiusura; salva restando, altresì, nei casi in cui la chiusura definitiva sia inflitta come pena accessoria, la possibilità di una sospensione della sua concreta applicazione, a norma dell'articolo 166, primo comma, del codice penale, come diretta conseguenza della concessione della sospensione condizionale della pena.

2.2.6. Autorità competente ad applicare le sanzioni.

A chiusura del capo I del titolo I, l'articolo 4 individua, in ossequio alla statuizione dell'articolo 16, lettera c), della legge delega, l'autorità competente ad applicare le sanzioni amministrative.

Occorre al riguardo premettere che l'"affollamento" di norme che contrassegna la materia degli alimenti ha provocato una polverizzazione delle competenze per l'irrogazione delle sanzioni, tanto che risulta arduo persino pervenire ad una compiuta ricostruzione del sistema. La riorganizzazione complessiva di tale aspetto del diritto alimentare esorbita peraltro dai limiti del presente decreto, oltre che per la problematica compatibilità con i tempi di attuazione della delega, anche - e prima ancora - perché la legge n. 205 del 1999 riferisce il potere del legislatore delegato di individuazione delle competenze esclusivamente agli illeciti depenalizzati.

Ciò posto, la scelta operata nell'articolo 4 si impernia sulla distinzione tra violazioni depenalizzate incluse in leggi che già contemplano altri illeciti amministrativi, e violazioni previste da leggi il cui apparato sanzionatorio si compone di sole ipotesi di reato.

Nel primo caso, onde evitare disarmonie funzionali ed il disorientamento degli operatori, si è previsto che la competenza ad applicare le sanzioni amministrative spetti all'autorità che già oggi le irroga per le altre violazioni amministrative.

Una attribuzione esplicita di competenza - conforme ai criteri generali stabiliti dall'articolo 17 della legge n. 689 del 1981 - è prefigurata, invece, in rapporto alle leggi del secondo tipo incluse nell'elenco allegato al decreto (articolo 4, comma 2). Per tali leggi si è prevista, in particolare, la competenza del Ministero delle politiche agricole e forestali, del Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigiano, nonché delle regioni e delle province autonome, in correlazione alle rispettive attribuzioni (al riguardo, si veda anche la disposizione transitoria di cui all'articolo 104 del decreto).

All'individuazione degli uffici periferici dei Ministeri ai quali deve essere presentato il rapporto previsto dall'articolo 17 della legge n. 689 del 1981 provvede la disposizione transitoria di cui all'articolo 103 del decreto (infra, § 9).

2.3. Modifiche della disciplina sanzionatoria.

2.3.1. Disposizioni penali.

Il capo II del titolo I reca modifiche alla disciplina sanzionatoria in materia alimentare che fuoriescono dai confini della mera depenalizzazione.

Gli articoli 5 e 6 contemplano, in particolare, interventi sulla residua area di rilevanza penalistica, in attuazione di quanto disposto dalle lettere b), c) e d) dell'articolo 3 della legge delega.

L'articolo 5 introduce una circostanza aggravante per i delitti di frode in commercio, vendita di sostanze alimentari non genuine e vendita di prodotti industriali con segni mendaci, nel caso in cui essi abbiano ad oggetto prodotti alimentari la cui denominazione di origine o geografica o le cui specificità (la norma di delega fa infatti riferimento anche alle caratteristiche del prodotto) risultino protette dalla normativa vigente (nuovo articolo 517-bis del codice penale). Si tratta di previsione che appare finalizzata, in certo qual senso, a "compensare" gli effetti della degradazione a mera violazione amministrativa degli illeciti, oggi penali, posti a protezione della denominazione di origine, disposta dalla lettera a).

Occorre tener conto tuttavia del fatto che la legislazione speciale in subiecta materia è percorsa, oltre che da pene principali, anche da numerosissime pene accessorie, prevalentemente riconducibili allo schema della chiusura temporanea dello stabilimento o dell'esercizio, secondo un modulo ricorrente che prevede, quali presupposti applicativi, la recidiva specifica o la particolare gravità del fatto concretamente posto in essere. Ed è proprio sull'incisività di tali ultime sanzioni che attualmente poggia buona parte dell'efficacia deterrente delle previsioni punitive.

Ora - premesso che la depenalizzazione delle figure di reato in questione comporta la trasformazione in sanzioni amministrative anche delle accennate pene accessorie (ex articolo 3, comma 1, del decreto) - risulta evidente come, nel caso di concorso apparente con la norma penale, il principio di specialità di cui all'articolo 9 della legge n. 689 del 1981 comporterebbe l'inapplicabilità della norma sanzionatoria amministrativa e, dunque, delle sanzioni accessorie da essa previste: con la conseguenza che - laddove non fossero introdotti opportuni correttivi - la capacità di prevenzione (generale e speciale) del sistema risulterebbe illanguidita proprio nelle ipotesi più gravi, nelle quali, cioè, il fatto costituisca reato.

Al fine di evitare tale illogico assetto, si è quindi introdotto - facendo leva sul potere di coordinamento riconosciuto dalla lettera b) dell'articolo 16 della legge n. 205 del 1999 - un secondo comma dell'articolo 517-bis del codice penale inteso specificamente a "recuperare" il contenuto delle sanzioni accessorie in esame, tramite il riconoscimento al giudice, nei casi di particolare gravità o di recidiva specifica, della facoltà di disporre, a titolo di pena accessoria, la chiusura dello stabilimento o dell'esercizio in cui il fatto è stato commesso per un periodo di tempo variabile da un minimo di cinque giorni ad un massimo di tre mesi, ovvero la revoca della licenza, dell'autorizzazione o dell'analogo provvedimento che consente l'esercizio dell'attività commerciale nello stabilimento o nell'esercizio stesso.

L'articolo 6 dello schema, attuativo delle lettere b) e c) dell'articolo 3 della legge delega, modifica la legge n. 283 del 1962, riscrivendo anzitutto il terzo comma dell'articolo 6, nel senso di rendere alternative le pene dell'arresto e dell'ammenda. Nel graduare, poi, la risposta sanzionatoria in rapporto alla gravità degli illeciti, si è confermata sostanzialmente la scelta compiuta dal legislatore del 1962, rispetto alla quale l'unico dato di novità è rappresentato dall'assimilazione, quoad poenam, dell'ipotesi prevista dalla lettera d) a quella prevista della lettera h) dell'articolo 5 della legge n. 283 (per la quale ultima il testo vigente già prevede un trattamento punitivo più severo). I precetti in questione appaiono infatti caratterizzati da tratti comuni che ne evidenziano una maggiore gravità: essi vietano l'impiego nella preparazione di alimenti o bevande, nonché la vendita, la detenzione a scopo di vendita o la somministrazione ecc., rispettivamente, di sostanze insudiciate, invase da parassiti, in stato di alterazione "o comunque nocive" (lettera d), ovvero che contengano residui di prodotti "tossici per l'uomo" (lettera h).

La modifica del secondo comma dell'articolo 12 della legge 283 del 1962, operata dallo stesso articolo 6 del decreto, recepisce in termini quasi testuali le indicazioni del legislatore delegante, laddove impone di differenziare la rilevanza della condotta di introduzione nel territorio dello Stato delle sostanze alimentari e non rispondenti ai requisiti imposti dalla legge, a seconda che esse siano destinate al commercio ovvero all'uso personale. La potenziale aggressione nei confronti del bene giuridico "salute pubblica" (conseguente alle condotte "ad ampio raggio di diffusione", come appunto la commercializzazione) giustifica infatti, nel primo caso, il mantenimento della risposta nell'alveo penalistico, e cioè una reazione più energica rispetto a quella che, attraverso la degradazione a violazione amministrativa, è prefigurata per la seconda ipotesi (condotte finalizzate ad un uso non di massa).

L'articolo 6 aggiunge, infine, un nuovo articolo 12-bis alla legge n. 283 del 1962, volto a recepire, limitatamente alla parte di rilevanza penale, il criterio di delega di cui alla lettera c) dell'articolo 3, che impone di prevedere, in rapporto alle violazioni di cui agli articoli 5, 6 e 12 della stessa n. 283, la chiusura dello stabilimento o dell'esercizio, nonché la revoca della relativa licenza nei casi in cui dal fatto sia derivato pericolo per la salute e di recidiva anche non specifica. Il regime applicativo è stato peraltro improntato al modello della facoltatività per ragioni omologhe a quelle illustrate a proposito delle corrispondenti sanzioni amministrative accessorie (retro, § 2.2.5).

Sempre in relazione all'articolo 12-bis, va infine osservato come la legge delega obblighi a prevedere la pena accessoria in relazione alle sole ipotesi di reato contemplate dalla legge speciale, e non anche a quelle - più gravi - del codice penale, che, laddove ricorrano, assorbono le prime. Al fine di rispettare la lettera della delega, evitando peraltro ingiustificate sperequazioni di trattamento, l'ultimo comma dell'articolo in rassegna dispone quindi che le pene accessorie di cui si va discorrendo si applichino anche quando i fatti previsti dagli articoli 5, 6 e 12 della legge n. 283 del 1962 costituiscano un più grave reato ai sensi di altre disposizioni (in primis codicistiche).

2.3.2. Le nuove sanzioni amministrative accessorie.

Sulla base dell'indicazione di cui all'ultima parte della lettera f) dell'articolo 3 della legge delega - che dà mandato all'esecutivo di prevedere nuove sanzioni accessorie idonee a prevenire "violazioni nella materie indicate nel presente articolo" - l'articolo 7 del decreto stabilisce che nei casi in cui venga irrogata, per le violazioni di settore, una sanzione amministrativa pecuniaria non inferiore a lire quindici milioni, possa altresì disporsi la pubblicazione o l'affissione del provvedimento che accerta la violazione.

Mentre la pubblicazione è sanzione già ben nota al nostro ordinamento - onde per la sua disciplina si è ritenuto sufficiente un richiamo alle disposizioni dell'articolo 36 del codice penale, in quanto compatibili - l'affissione rappresenta una misura nuova, idonea a svolgere, per il suo effetto di stigma (come dimostra l'esperienza maturata in legislazioni straniere, tra cui quella francese), una significativa funzione preventiva, tanto generale che speciale, collocandosi così a buon titolo nel solco di quel recupero di deterrenza attraverso le sanzioni accessorie che, nella linea ispiratrice della legge delega, è volto a compensare il venir meno del carattere penale degli illeciti. La durata dell'affissione (comunque non superiore a quattro mesi), al pari delle altre modalità esecutive, dovrà essere stabilita dalle autorità (amministrative o giudiziarie) chiamate ad applicare la sanzione principale; il comma 2 si limita a prevedere in proposito, quale criterio direttivo nell'esercizio del potere discrezionale, che luoghi, modalità e durata siano tali da assicurare un'agevole conoscibilità del provvedimento da parte del pubblico.

La scelta di affiancare, come possibile alternativa alla misura dell'affissione, la sanzione "tradizionale" della pubblicazione del provvedimento che accerta la violazione, si fonda su intuitive esigenze di effettività: si intende, infatti, come di fronte a violazioni commesse nell'ambito di imprese con stabilimenti o esercizi diffusi sul territorio (si pensi, ad esempio, ad una catena di supermercati), la sanzione della pubblicazione si lascia preferire perché più idonea a rendere di pubblico dominio la violazione accertata.

Va sottolineato, da ultimo, come le nuove sanzioni siano state previste in rapporto a tutti gli illeciti amministrativi in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti e delle bevande, o di tutela della denominazione di origine dei medesimi, anche diversi da quelli interessati dal presente intervento legislativo. La soluzione - che mira ad assicurare omogeneità nella disciplina di quello che sempre più decisamente va assumendo i connotati di un "sottosistema" autonomo - non trova ostacolo nella lettera della delega, la quale si riferisce genericamente, nel frangente, alle "materie" indicate nell'articolo 3 (anziché ai soli illeciti da depenalizzare).

2.3.3. La chiusura dello stabilimento nel caso di insussistenza dei requisiti igienico-sanitari.

Le disposizioni relative alla chiusura dello stabilimento o dell'esercizio per mancanza di requisiti igienico-sanitari, di cui all'articolo 8 del decreto, ricalcano pressoché testualmente il criterio di delega della lettera e) dell'articolo 3 della legge n. 205 del 1999, già sufficientemente puntuale.

La misura si discosta da quelle disciplinate dai precedenti articoli per il fatto di essere caratterizzata da una funzione "preventivo-cautelare", invece che tipicamente sanzionatoria. Essa non consegue, infatti, all'accertamento di specifici illeciti, bensì alla verifica dell'insussistenza dei requisiti igienico-sanitari previsti per il rilascio dell'autorizzazione sanitaria; in questa prospettiva, ne è dunque prevista la revoca immediata non appena la situazione di irregolarità venga eliminata. Comunque, per evitare ogni possibile dubbio interpretativo, è fatta espressamente salva l'applicabilità delle disposizioni che prevedono, a qualunque altro titolo, l'adozione del provvedimento di chiusura, rispetto alle quali l'articolo in esame viene pertanto ad atteggiarsi come norma residuale.

7. Trasformazione di reati in illeciti amministrativi.

7.1. Considerazioni generali.

7.1.1. Premessa.

Il titolo VI del decreto dà attuazione all'articolo 7 della legge n. 205 del 1999, che affida all'esecutivo il compito di trasformare in illeciti amministrativi una serie di reati eterogenei quanto ad oggettività giuridica e modalità di condotta, il cui unico comun denominatore è rappresentato dall'esiguo spessore sanzionatorio. A seguito dell'argomentata richiesta formulata dalla Commissione giustizia del Senato, si è data integrale esecuzione anche al disposto della lettera c) del citato articolo 7, procedendo alla depenalizzazione delle contravvenzioni di cui agli articoli 676 e 677 del codice penale (in tema, rispettivamente, di rovina di edifici o di altre costruzioni e di omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina), rispetto alle quali, in sede di elaborazione dello schema preliminare di decreto, si era viceversa ipotizzata la rinuncia all'esercizio della delega.

Ciò posto, vale osservare come la norma di delega distingua i reati da depenalizzare "per fasce", a seconda della rispettiva gravità [lettere a), b), c), d), e) ed f) del comma 1], prevedendo per ciascun gruppo limiti edittali minimi e massimi entro i quali graduare la nuova risposta sanzionatoria.

Nell'operare la depenalizzazione, si è cercato di contenere la forbice sanzionatoria in un rapporto da uno a sei; ciò al fine di agevolare il calcolo per il pagamento in misura ridotta, meccanismo estintivo dell'illecito amministrativo cui si è consentito ampiamente il ricorso, avvalendosi in maniera alquanto cauta del potere [riconosciuto dall'articolo 16, comma 1, lettera a), della legge delega] di introdurre limitazioni alla relativa facoltà, sì da disincentivare l'instaurazione di contenziosi giurisdizionali che, spostando il carico di lavoro sul giudice civile, rischierebbero di ridurre i benefici della riforma in termini di deflazione.

7.1.2. Previsione di sanzioni accessorie.

Si è fatto, del pari, limitato uso del potere, discrezionalmente attribuito al legislatore delegato dalla lettera g) del medesimo articolo 7 della legge n. 205 del 1999, di prevedere, per le violazioni depenalizzate, "eventuali sanzioni amministrative accessorie".

Stante la particolare afflittività di tale tipo di risposta punitiva, si è preferito in genere evitare la creazione di nuove sanzioni e trasformare in amministrative le sanzioni accessorie penali già esistenti, mantenendone (mutatis mutandis) i presupposti applicativi.

Nei casi in cui è stata comminata una sanzione amministrativa accessoria, si è scelto comunque di escludere, almeno in via tendenziale, la facoltà del pagamento in forma ridotta, sia in considerazione della maggiore gravità delle condotte illecite avute di mira, sia per evitare che la previsione della sanzione stessa resti concretamente priva di valenza deterrente a fronte della possibilità di eluderla attraverso meccanismi di "monetizzazione" della responsabilità.

7.1.3. Coordinamento con le ipotesi di reato.

Un'ultima indicazione di carattere generale attiene alla previsione, nelle formule descrittive degli illeciti depenalizzati, di "clausole di salvezza" dei casi in cui il fatto costituisca reato.

Recependo l'indicazione della Commissione giustizia del Senato, l'inserimento di tale clausola è stato limitato agli illeciti per i quali l'originario dettato normativo faceva già salvo il reato più grave, nonché - fuori di tale ipotesi - alla sola fattispecie dell'abusiva introduzione del bestiame nei fondi altrui, descritta dall'articolo 21, primo comma, del regio decreto 14 luglio 1898, n. 404, recante "repressione dell'abigeato e del pascolo abusivo in Sardegna" (articolo 60 del decreto): fattispecie rispetto alla quale la clausola stessa assolve alla funzione di evitare che si determini una situazione normativa di problematica compatibilità con il principio costituzionale di uguaglianza. Posto, infatti, che la condotta integrativa dell'illecito depenalizzato in parola risulta riconducibile, in buona parte dei casi, anche all'ipotesi delittuosa di cui all'articolo 636 del codice penale, la mancata previsione della clausola condurrebbe ad un'irragionevole discriminazione nel trattamento sanzionatorio delle medesime condotte, a seconda dell'area geografica del Paese ove vengono tenute.

7.2. Gli interventi di depenalizzazione.

Per quanto attiene più specificamente agli interventi di depenalizzazione, va osservato che i criteri di delega, volti ad individuare specificamente le fattispecie interessate, non consentono, neppure per quanto attiene agli illeciti previsti dal codice penale, di far ricorso ad una tecnica di depenalizzazione di tipo "generale", analoga a quella utilizzata dalla legge n. 689 del 1981, ed impongono dunque un intervento sull'apparato sanzionatorio delle singole disposizioni normative.

Nel depenalizzare i reati disseminati nella legislazione speciale, si è modulata la risposta sanzionatoria amministrativa sulla gravità dei fatti, così da evitare di "rivitalizzare" talune fattispecie che, a causa del loro evidente anacronismo, trovano oggi un'applicazione assai limitata.

Si è posto, per altro verso, il problema della determinazione della sanzione amministrativa - da contenere, per le violazioni di cui alla lettera d) dell'articolo 7 della legge delega, tra un minimo di lire duecentomila ed un massimo di cinque milioni - nel caso in cui fosse originariamente prevista una pena proporzionale. La delega è stata al riguardo interpretata ritenendo che minimo e massimo nuovi valgano all'interno della forbice entro la quale il legislatore consentiva al giudice di fissare la pena per ogni unità considerata (ad esempio, per ogni lavoratore irregolarmente occupato). Siffatta soluzione - che pur presenta l'inconveniente di condurre all'applicazione di sanzioni considerevolmente più elevate rispetto a quelle attualmente irrogabili - è parsa invero preferibile a quella alternativa di fissare, comunque, limiti minimi e massimi entro i quali contenere l'effetto moltiplicatore della pena proporzionale: operazione che provocherebbe una destrutturazione della fattispecie, ponendosi altresì in frizione con il principio espresso dal secondo periodo del primo comma dell'articolo 10 della legge n. 689 del 1981 che, per le sanzioni considerate, esclude l'operatività di un limite massimo. Tale rilievo acquista ancora maggiore pregnanza ove si consideri che, a differenza di altre tipologie di illecito rispetto alle quali pure si registra una frequente utilizzazione di sanzioni di tipo proporzionale (ad esempio, le violazioni in materia di contrabbando), le fattispecie in esame non puniscono in realtà un unico fatto (fissando un peculiare criterio di determinazione della pena), ma si riferiscono piuttosto ad una pluralità di illeciti, rispetto ai quali escludono l'applicabilità del normale (e, in linea di massima, più mite) regime del concorso di illeciti.

Il discorso non vale per l'articolo 69, il quale incide su una fattispecie (quella di cui all'articolo 24 della legge 26 aprile 1934, n. 653) in rapporto alla quale erano già previsti limiti minimo e massimo entro cui la pena, da fissare proporzionalmente, poteva oscillare. Giova per diverso rispetto segnalare come l'originaria formulazione del citato articolo 24 parametrasse la sanzione proporzionale su "ogni persona occupata nel lavoro": senonché, avendo l'articolo 27 della legge n. 977 del 1967 espressamente abrogato le norme della legge n. 653 del 1934 per la parte relativa alla tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti, nella riscrittura della norma si è preferito far riferimento esclusivamente alle lavoratrici.

7.3. Autorità competente ad applicazione le sanzioni.

In ossequio alla lettera c) del comma 1 dell'articolo 16, gli articoli 59 e 93 del decreto provvedono ad individuare le autorità competenti ad irrogare le sanzioni amministrative inerenti agli illeciti depenalizzati.

Per quanto attiene agli illeciti previsti dal codice penale, l'individuazione ha luogo mediante aggiunta di apposita previsione nell'ambito delle disposizioni di coordinamento e transitorie del codice medesimo. Si è colta altresì l'occasione per operare una ricognizione delle autorità amministrative competenti (che nulla innova: trattasi di mera operazione di coordinamento) anche in relazione alle altre fattispecie codicistiche precedentemente depenalizzate.

7.4. Fattispecie già depenalizzazione o non più in vigore.

Un ultimo aspetto problematico dell'attuazione dell'articolo 7 della legge delega attiene alle fattispecie inserite nell'elenco di quelle da trasformare in illecito amministrativo, e tuttavia da considerare già depenalizzate per effetto di precedenti interventi legislativi, o addirittura non più in vigore.

Nell'uno come nell'altro caso, al fine di evitare contrasti interpretativi, si è ritenuto opportuno comunque disciplinare la materia.

Così, si è provveduto a sostituire con sanzioni amministrative le pene previste dall'articolo 116 del regio decreto-legge 19 ottobre 1938, n. 1933, in materia di lotto pubblico, ancorché l'illecito dovesse intendersi depenalizzato per effetto dell'articolo 32 o comunque dell'articolo 39 della legge n. 689 del 1981.

Egualmente, si è ribadita, nell'articolo 72, comma 2, dello schema, l'abrogazione dell'articolo 76 del regio decreto 5 giugno 1939, n. 1016, soppresso dall'articolo 34 della legge 27 dicembre 1977, n. 968 (il quale demandava alle regioni la disciplina della materia, prevedendo contestualmente all'entrata in vigore delle leggi regionali l'abrogazione di quella in oggetto) e comunque dall'articolo 37 della legge 11 febbraio 1992, n. 157 che, in materia di caccia, dispone l'abrogazione di ogni "disposizione in contrasto con la presente legge".

Per quanto attiene, invece, all'articolo 36 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 640, occorre considerare che sebbene la disposizione sia stata espressamente abrogata dall'articolo 7 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 473, la previsione sanzionatoria di cui al capoverso, indicata dalla legge delega, può ritenersi tuttora operativa ad esaurimento, e cioè con riferimento all'inosservanza di ordini di chiusura ancora efficaci alla data di entrata in vigore del citato decreto legislativo n. 473 del 1997. Per tale ragione, si è dunque ritenuto di dover provvedere comunque alla trasformazione della violazione in illecito amministrativo.

8. Modifiche alla legge 24 novembre 1981, n. 689.

8.1. Reiterazione delle violazioni.

8.1.1. Premessa.

Il titolo VII del decreto accorpa in un contesto unitario le modifiche alla legge fondamentale in materia di sanzioni amministrative (la legge 24 novembre 1981, n. 689) specificamente imposte dalla legge delega, o da questa rese comunque necessarie sul piano degli interventi di coordinamento.

Posto che la ratio della modifica concernente il principio di specialità (articolo 95 del decreto), connessa al nuovo regime sanzionatorio delle violazioni in materia di alimenti, è già stata in precedenza lumeggiata (retro, § 2.2.2), va rilevato come l'articolo 94 introduca nella citata legge n. 689 del 1981 un nuovo articolo 8-bis, inteso a regolare in via generale l'istituto della reiterazione delle violazioni amministrative.

Tale istituto percorre invero "trasversalmente" i singoli capitoli della riforma del sistema sanzionatorio: la legge delega fa infatti riferimento più volte ed in diverse sedi al concetto di "reiterazione", correlandolo, a seconda dei casi, alle nozioni di "violazione", "illecito" e "condotta", ed elevandolo a presupposto, ora dell'applicazione di sanzioni amministrative accessorie (anche di particolare afflittività: si pensi alla chiusura dello stabilimento o dell'esercizio, prevista per la reiterazione delle violazioni in materia alimentare), ora dell'aggravamento della sanzione amministrativa principale [cfr. articolo 3 lettere a) e c); articolo 5, lettere c) e d); articolo 6, lettera a); articolo 7, lettera b)].

La rimarcata valenza "trasversale" e la rilevanza degli effetti che la legge delega - e, conformemente ad essa, il presente decreto - ricollegano alla reiterazione, hanno fatto ritenere necessaria una regolamentazione espressa, unitaria e generale della figura.

L'esigenza d'una disciplina espressa è di palmare evidenza. In difetto di essa, difatti, rimarrebbero totalmente nel vago - e dunque rimessi alla libera valutazione delle singole autorità amministrative procedenti - i limiti di operatività dell'istituto: e così, il periodo temporale da prendere in considerazione ai fini di verificare la commissione di precedenti illeciti; il rapporto che, sul piano della natura delle violazioni, deve sussistere tra quella attuale e quelle pregresse; la necessità o meno che le violazioni anteriori siano state accertate con provvedimento definitivo. Si tratta di un risultato assolutamente inauspicabile sul piano della certezza del diritto, costituente un valore cardine specialmente in ambito sanzionatorio.

È d'altro canto opportuno che la regolamentazione risulti unitaria - salve le specifiche deroghe eventualmente richieste dalle peculiarità di singole violazioni - sia al fine di assicurare la coerenza dell'impianto, sia per ragioni di economia legislativa e di agevole fruibilità del prodotto normativo da parte dell'interprete e dell'operatore pratico (l'una e l'altra sarebbero invero pregiudicate dalla introduzione di una minuta serie di previsioni normative - talune delle quali necessariamente "extravaganti" - dirette a regolare in termini omologhi il medesimo istituto con riferimento ai diversi settori interessati dalla riforma).

Da ultimo, l'esigenza di garantire l'armonia complessiva del sistema sanzionatorio ha indotto - facendo leva sulla previsione della legge delega relativa al coordinamento - a configurare una disciplina di ordine generale: valevole, cioè, non soltanto in relazione agli illeciti depenalizzati dal presente decreto legislativo, ma in rapporto all'intero parco delle violazioni amministrative, fatte salve - s'intende - le particolari discipline della reiterazione già presenti nell'ordinamento (il discorso vale, in modo particolare, per le violazioni amministrative tributarie, la cui reiterazione trova specifica regolamentazione nell'articolo 7 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472), e fermo restando, altresì, che la reiterazione in tanto viene in rilievo in quanto la legge la faccia oggetto di specifica considerazione in rapporto alle singole violazioni.

A tale riguardo, occorre invero rilevare che gli illeciti depenalizzati attengono a settori che già contemplano altre violazioni amministrative, relativamente alle quali non sarebbe dunque ragionevole che la reiterazione - ove già configurata dalle norme vigenti come motivo di incremento sanzionatorio, e pur tuttavia non specificamente regolata sul piano contenutistico - assumesse una diversa fisionomia; discorso, questo, peraltro estensibile anche ai rapporti tra settori interessati e non interessati dalla riforma (anche laddove la disciplina della reiterazione non fosse costruita come generale, ricorrerebbero di vero i presupposti per una sua estensione in via analogica alle materie estranee).

8.1.2. Il nuovo istituto della reiterazione amministrativa.

Scendendo quindi all'esame del nuovo articolo 8-bis della legge n. 689 del 1981, esso definisce anzitutto il concetto di reiterazione delle violazioni amministrative, stabilendo che la reiterazione ricorre quando, nei cinque anni successivi alla commissione di una violazione amministrativa, accertata con provvedimento esecutivo, lo stesso soggetto commette una ulteriore violazione della stessa indole.

L'intervallo temporale massimo, riferito alla data di commissione delle due (o più) violazioni, mira evidentemente ad evitare che gli effetti della reiterazione scattino anche in rapporto a comportamenti illeciti così risalenti nel tempo da aver perduto la loro valenza sintomatica di una particolare pervicacia dell'autore nell'inosservanza del comando o del divieto normativo.

Onde evitare, altresì, che gli anzidetti effetti si producano di fronte a violazioni che, sebbene plurime dal punto di vista giuridico-formale, appaiono però espressive di un unico sostanziale episodio di trasgressione, si stabilisce che gli illeciti successivi al primo non debbano essere valutati, ai fini che qui interessano, quando risultino commessi in tempi ravvicinati e riconducibili ad una programmazione unitaria.

La nuova violazione deve essere, poi, della stessa indole di quella anteriormente commessa, non potendosi giustificare, nell'ambito del sistema sanzionatorio amministrativo, a differenza che in quello penale - come già ad altro fine accennato (retro, § 2.2.5) - la previsione di un inasprimento del trattamento punitivo nei confronti di chi abbia in precedenza commesso un qualunque altro illecito, anche se attinente ad una sfera di tutela diversissima.

La nozione di "violazioni della stessa indole", esplicitata dal secondo comma dell'articolo 8-bis, ricalca in buona misura quella offerta dall'articolo 7 del decreto legislativo n. 472 del 1997 in riferimento all'ordinamento sanzionatorio tributario: si considerano cioè, della stessa indole le violazioni della medesima disposizione e quelle di disposizioni diverse che tuttavia, per la natura dei fatti che le costituiscono o per le modalità della condotta, presentano una sostanziale omogeneità o caratteri fondamentali comuni. La reiterazione è "specifica" quando è violata la medesima disposizione (terzo comma dell'articolo 8-bis)

Occorre, ancora, che la precedente violazione risulti accertata con provvedimento esecutivo (che sarà costituito, di norma, dall'ordinanza-ingiunzione ex articolo 18 della legge n. 689 del 1981). Al riguardo, si sono infatti scartate sia la soluzione di far riferimento alla mera commissione "naturalistica" dell'illecito (che avrebbe generato problemi sul piano della garanzia), sia quella diametralmente opposta di richiedere che l'accertamento della violazione pregressa sia avvenuto con provvedimento definitivo (che avrebbe, per un verso incentivato opposizioni anche pretestuose agli accertamenti, e per l'altro rischiato di vanificare l'operatività dell'istituto, tenuto conto dei tempi necessari per l'esaurimento del contenzioso giurisdizionale in rapporto al limite cronologico di operatività dell'istituto stesso).

La previsione è accompagnata, peraltro, da due correttivi. Da un lato, cioè, ad evitare conseguenze manifestamente illogiche nel caso in cui due o più violazioni successive nel tempo formassero oggetto di accertamento unitario, si stabilisce che la reiterazione operi anche quando i plurimi illeciti commessi nel quinquennio vengano accertati con unico provvedimento esecutivo.

Dall'altro lato, ed in direzione inversa, si riconosce all'autorità amministrativa - ovvero al giudice, in caso di opposizione - la facoltà di sospendere gli effetti conseguenti alla reiterazione fino a quando il provvedimento che accerta la violazione precedente sia divenuto definitivo, allorché possa derivarne grave danno (si pensi, di nuovo, alla chiusura dello stabilimento prevista nei casi di reiterazione delle violazioni in materia di alimenti); fermo restando, in ogni caso, che gli effetti della reiterazione cessano di diritto, ove detto provvedimento venga annullato.

Come già rimarcato, gli effetti della reiterazione sono esclusivamente quelli che la legge, in rapporto ai singoli illeciti, vi ricollega. È necessario sottolineare in modo particolare questo aspetto: la costruzione di una disciplina generale dell'istituto della reiterazione non comporta affatto che esso si applichi a tutte le violazioni amministrative previste dall'ordinamento giuridico. L'articolo 8-bis si limita difatti a chiarire la portata del concetto in rapporto ai casi in cui il riferimento alla reiterazione viene introdotto dal presente decreto, nonché - quanto agli illeciti estranei dal decreto stesso - limitatamente alle ipotesi in cui la legislazione vigente già elevi la reiterazione a causa di inasprimento del regime sanzionatorio.

Da ultimo, si è stabilito che la reiterazione non operi nel caso di pagamento in misura ridotta. Si tratta di una previsione che non soltanto è conforme a quanto già previsto dall'ordinamento amministrativo tributario, nell'ottica di incentivare il ricorso a detta forma di pagamento, foriera di giovevoli effetti deflattivi; ma che appare, altresì, praticamente necessitata a fronte del regime del pagamento in misura ridotta, che interviene subito dopo la contestazione dell'illecito, prevenendo l'adozione del provvedimento accertativo (articolo 16 della legge n. 689 del 1981): onde, in caso di ricorso ad esso, mancherebbe comunque uno dei presupposti per l'applicabilità dell'istituto della reiterazione.

Non si è ritenuto, per converso, di poter affrontare, in questa sede, il tema della conoscibilità della commissione delle precedenti infrazioni da parte delle singole autorità amministrative. È evidente, infatti, che la creazione di un ipotetico "casellario generale delle violazioni amministrative" avrebbe posto problemi sul piano della copertura di spesa, e sarebbe risultata altresì "sproporzionata" rispetto al concreto ambito di operatività della reiterazione, che, allo stato della legislazione, resta comunque decisamente circoscritto. D'altro canto, nei settori nei quali tale istituto è destinato a trovare più frequente applicazione - segnatamente, quelli degli alimenti, della circolazione stradale e degli assegni - archivi delle violazioni già esistono (è il caso, ad esempio, della circolazione stradale), ovvero vengono istituiti dal presente decreto in ossequio alle indicazioni della legge delega (è il caso degli assegni).

8.2. Aggiornamento del limite minimo delle sanzioni amministrative pecuniarie.

L'articolo 96 dà attuazione all'istruzione di cui all'articolo 16, comma 1, lettera a), della legge delega, laddove prevede l'adeguamento del limite minimo delle sanzioni amministrative pecuniarie fissato in termini generali dall'articolo 10 della legge n. 689 del 1981.

Tenendo conto precipuamente del parametro rappresentato dalla svalutazione monetaria, detto limite - attualmente stabilito in lire quattromila - è stato elevato a lire dodicimila.

8.3. Attribuzione al giudice di pace della competenza in materia di opposizione all'ordinanza-ingiunzione.

Gli articoli 97, 98 e 99 del decreto attuano l'istruzione di cui all'articolo 1 della legge delega, nella parte in cui dà mandato all'esecutivo di devolvere al giudice di pace la competenza in materia di opposizione all'ordinanza-ingiunzione emessa a seguito dell'accertamento di violazioni amministrative, fatta eccezione per le violazioni che rispondano ai parametri indicati dal successivo articolo 2, in rapporto alle quali è destinata pertanto a rimanere ferma la competenza del giudice professionale (originariamente il pretore, ed oggi il tribunale, a seguito dell'intervenuta efficacia del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51).

Il nuovo assetto delle competenze è delineato, in particolare, dall'articolo 22-bis della legge n. 689 del 1981, aggiunto dall'articolo 98 del decreto, che, dopo aver affidato in termini generali al giudice onorario la cognizione delle opposizioni in parola (primo comma), elenca, in via di eccezione, una serie di ipotesi (secondo e terzo comma) nelle quali l'opposizione è decisa dal tribunale (che, in base alle vigenti regole sull'operatività dell'organo, pronuncerà in composizione monocratica).

Riguardo alle violazioni da sottrarre alla cognizione del giudice di pace, giova osservare come la legge delega enunci criteri di duplice ordine: da un lato, cioè, di tipo "qualitativo", richiedendo al legislatore delegato di escludere la competenza del giudice onorario "nelle materie, da elencare tassativamente ..., che comportano una particolare difficoltà di accertamento o coinvolgano rilevanti interessi collettivi"; dall'altro, di tipo "quantitativo", dovendosi analoga esclusione sancire in rapporto alle violazioni "per le quali sono previste sanzioni di notevole entità".

In linea di massima, si è ritenuto che le indicazioni parlamentari vadano interpretate in senso ragionevolmente restrittivo, evitando di costruire una griglia di eccezioni talmente fitta da tradire l'obiettivo di deflazione del carico di lavoro della giustizia professionale che alita alla radice della riforma.

In concreto, un termine di riferimento per la definizione delle esclusioni di tipo "qualitativo" è stato individuato (anche nell'ottica di assicurare la complessiva coerenza del sistema) nell'articolo 34 della legge n. 689 del 1981, ove si contiene un elenco di materie sottratte alla depenalizzazione a suo tempo disposta dalla stessa legge n. 689: elenco che risulta richiamato dall'articolo 15, comma 3, lettera c), della legge 24 novembre 1999, n. 468, recante delega al Governo per l'attribuzione di competenze penali al giudice di pace, quale limite alla possibilità di devoluzione al giudice onorario della cognizione di fatti di reato.

In tale ottica, si sono quindi segnatamente escluse, in base al criterio del coinvolgimento di rilevanti interessi collettivi, le materie concernenti la tutela del lavoro, la previdenza e assistenza obbligatoria, l'urbanistica e l'edilizia, la tutela dell'ambiente dall'inquinamento, della flora, della fauna e delle aree protette, nonché l'igiene degli alimenti e delle bevande; e, sotto il profilo della rilevante difficoltà di accertamento, le materie societaria, dell'intermediazione finanziaria, tributaria e valutaria.

Va peraltro sottolineato che - secondo quanto si desume dalla espressa clausola di salvezza delle diverse disposizioni di legge, che compare nel nuovo articolo 22-bis della legge n. 689 del 1981 - l'attribuzione di competenza operata da tale articolo, tanto a favore del giudice di pace che del tribunale, lascia ferme le competenze particolari previste dalla legislazione speciale (il discorso vale in modo particolare per le violazioni concernenti gli intermediari finanziari, in rapporto alla quale è prevista in via generale una speciale competenza della corte di appello, e per le violazioni tributarie, la cui cognizione è di norma affidata alle commissioni tributarie).

Per quanto attiene al secondo criterio, relativo all'entità della sanzione, la competenza del giudice di pace è stata in via generale esclusa - conformemente all'indicazione della legge delega, che impone di far riferimento alle sanzioni "previste" (ossia alla comminatoria astratta), e non a quelle concretamente applicate - in rapporto alle violazioni per le quali sia comminata una sanzione amministrativa pecuniaria di importo superiore nel massimo a trenta milioni di lire (tale importo corrisponde al limite della competenza civile del giudice di pace, nei casi previsti dal secondo comma dell'articolo 7 del codice di procedura civile).

La soluzione del riferimento alla sanzione edittale non poteva essere peraltro seguita - per ragioni logiche o pratiche - in due ipotesi. Anzitutto, rispetto alle violazioni per le quali sia prevista una sanzione pecuniaria proporzionale, senza previsione di un limite massimo: in tal caso, l'esclusione della competenza del giudice di pace è stata di necessità sancita rapportando il limite dei trenta milioni alla sanzione concretamente inflitta.

Parimenti, si è sottratta al giudice di pace la cognizione delle violazioni per le quali sia stata concretamente inflitta una sanzione amministrativa diversa da quella pecuniaria. Se da un lato, infatti, è parso necessario (in base ad un ragionamento a fortiori) devolvere al giudice professionale le opposizioni in cui si discuta di sanzioni normalmente più afflittive di quella pecuniaria; dall'altro, però, si è rilevato come il riferimento alla mera comminatoria edittale di tali sanzioni avrebbe allargato eccessivamente il campo dell'esclusione senza adeguata giustificazione, tenuto conto della circostanza che in buona parte dei casi l'applicazione della sanzione accessoria non pecuniaria è prevista come meramente facoltativa.

Nella medesima prospettiva, si è inoltre reputato opportuno introdurre una "eccezione all'eccezione", lasciando comunque alla competenza del giudice di pace le materie concernenti gli assegni e la circolazione stradale, anche laddove venissero inflitte sanzioni non pecuniarie. In tali materie, infatti - anche in conseguenza delle modifiche operate dal presente decreto legislativo - il ricorso alle sanzioni amministrative accessorie risulta largamente diffuso, sì che la devoluzione della competenza al tribunale non sarebbe risultata conforme ai ricordati obiettivi di deflazione.

L'articolo 99, nel modificare l'articolo 23 della legge n. 689 del 1981, esclude che il giudizio di opposizione davanti al giudice di pace possa essere deciso secondo equità, come altrimenti sarebbe stato consentito dalla disposizione generale dell'articolo 113, secondo comma, del codice di procedura civile. Si è colta altresì l'occasione per sostituire l'ormai inattuale richiamo all'articolo 313 del codice di procedura civile, contenuto nel terzo comma del citato articolo 23 della legge n. 689 del 1981, con il riferimento ai termini di comparizione previsti dall'articolo 163-bis del predetto codice.

9. Disposizioni transitorie e finali.

Il titolo VIII del decreto reca le disposizioni transitorie e finali, conformemente al mandato conferito dall'articolo 16 della legge delega.

La disciplina transitoria - che assume particolare rilievo, a fronte dell'elevato numero di procedimenti pendenti per reati coinvolti nella depenalizzazione - si allinea, quanto all'asse portante, a quella dettata dalla legge n. 689 del 1981 (articoli 40 e 41), modificandola ed integrandola tuttavia in alcuni passaggi, sia per tener conto del mutato panorama ordinamentale, sia soprattutto per agevolare la delicata fase di passaggio dal vecchio al nuovo regime.

Si stabilisce dunque, anzitutto, che le disposizioni che sostituiscono le sanzioni penali con sanzioni amministrative si applichino anche alle violazioni commesse prima dell'entrata in vigore del decreto, purché, ovviamente, il relativo procedimento penale non sia stato ancora definito con sentenza o decreto irrevocabile (articolo 100, comma 1).

La previsione normativa - analoga a quella di cui all'articolo 40 della legge n. 689 del 1981 - scongiura il rischio che gli illeciti depenalizzati, posti in essere anteriormente al provvedimento di depenalizzazione, possano considerarsi non sanzionabili (oltre che, ovviamente, con le originarie pene criminali, ex articolo 2, secondo comma, del codice penale) neanche in via amministrativa, a fronte del principio di legalità enunciato dall'articolo 1 della legge n. 689 del 1981, secondo la lettura datane dalle Sezioni unite penali della Corte di cassazione.

Ad evitare, peraltro, che la depenalizzazione possa risultare foriera, nei fatti, di un sensibile inasprimento ex post del regime sanzionatorio, si è previsto che sanzioni amministrative accessorie - sanzioni ampiamente utilizzate in sede di riforma e spesso particolarmente incisive - si applichino alle violazioni anteriormente commesse solo quando sostituiscano corrispondenti pene accessorie.

Per quanto concerne i procedimenti già definiti, si è configurato un sistema più snello, rispetto a quello ordinariamente operante in rapporto alla generale previsione dell'articolo 673 del codice di procedura penale, ai fini della revoca della condanna per intervenuta abolitio criminis (salvo che per le parti in cui la stessa debba trovare ancora esecuzione, secondo quanto subito appresso si dirà), prevedendo che il giudice adotti il provvedimento con la procedura de plano contemplata dall'articolo 667, comma 4, dello stesso codice (articolo 101, comma 1, dello schema).

Analogamente a quanto stabilito dall'articolo 41, secondo e terzo comma, della legge n. 689 del 1981, si dispone, peraltro, che la multa e l'ammenda inflitte con provvedimento definitivo debbano essere comunque riscosse, insieme alle spese del procedimento, e che restino altresì salve la confisca e le pene accessorie (queste ultime, limitatamente ai casi in cui risultino ancora applicabili alle violazioni depenalizzate come sanzioni amministrative). Si tratta di disposizioni la cui intuitiva ratio è quella di evitare che al condannato con sentenza irrevocabile, non ancora eseguita, sia assicurato (per effetto della revoca del provvedimento) un trattamento illogicamente più favorevole rispetto a quello riservato a chi abbia parimenti commesso i reati depenalizzati anteriormente all'entrata in vigore del decreto, ma senza essere stato raggiunto da accertamento giudiziale definitivo.

Riguardo ai procedimenti pendenti, l'articolo 102 dello schema stabilisce che l'autorità giudiziaria debba trasmettere i relativi atti all'autorità amministrativa nel termine (ordinatorio) di novanta giorni dall'entrata in vigore del decreto, salvo che il reato risulti già prescritto od altrimenti estinto prima di tale data.

Le modalità di trasmissione sono diverse a seconda della fase in cui si trova il procedimento penale. In particolare, prima dell'esercizio dell'azione penale la trasmissione degli atti viene disposta direttamente dal pubblico ministero (la previsione generalizzata di un intervento del giudice, oltre a risultare scarsamente giustificata in un momento nel quale non è stata ancora formulata alcuna imputazione, sarebbe risultata foriera di un rilevante aggravio per gli uffici giudiziari), con la precisazione - intesa ad evitare incertezze interpretative - che il pubblico ministero, nel caso in cui la notizia di reato sia stata già iscritta a norma dell'articolo 335 del codice di procedura penale, dovrà annotare nel registro l'avvenuta trasmissione (la previsione lascia inferire, a contrario, che non dovrà invece procedersi ad alcuna formalità nell'ipotesi in cui l'iscrizione non sia ancora avvenuta). L'intervento del giudice è previsto - nella forma dell'adozione di un provvedimento di archiviazione - unicamente quando non debba farsi luogo alla trasmissione degli atti all'autorità amministrativa per avvenuta estinzione del reato. Per maggiore snellezza delle operazioni, si è comunque stabilito - in analogia a quanto previsto dall'articolo 415, comma 4, del codice di procedura penale, come modificato dall'articolo 16 della legge 16 dicembre 1999, n. 479, riguardo ai reati commessi da persone ignote - che tanto la richiesta di archiviazione che il decreto del giudice che la accoglie possano avere ad oggetto "blocchi" di procedimenti, indicati in appositi elenchi.

Nel caso in cui, invece, sia già stata esercitata l'azione penale e quindi ci si trovi nella fase processuale, il controllo del giudice in ordine all'intervenuta degradazione della fattispecie penale ad illecito amministrativo è risultato, per intuitive ragioni, ineludibile. Anche in questo caso, peraltro, la procedura delineata si ispira ad un criterio di accentuata semplificazione. Si prevede, cioè, che il giudice, se l'imputato o il pubblico ministero non si oppongono, pronuncia in camera di consiglio sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti all'autorità competente. Posto che la sentenza camerale presuppone la non opposizione delle parti interessate, se ne è prevista l'inappellabilità, con disposizione (ovviamente riferita alla sentenza resa nel primo grado di giudizio) che ricalca quella dell'articolo 226 del decreto legislativo n. 51 del 1998, in materia di declaratoria dell'intervenuta prescrizione nei procedimenti pendenti alla data di efficacia della riforma sul "giudice unico".

Le indicate soluzioni normative sembrano concretare il massimo della semplificazione ragionevolmente ipotizzabile nel rispetto dei principi, onde non sono parsi sussistere spazi per l'accoglimento dell'invito, formulato dalla Commissione giustizia della Camera, a prefigurare ulteriori misure di snellimento delle procedure di trasferimento degli atti dall'autorità giudiziaria all'autorità amministrativa.

Per quanto riguarda, poi, il procedimento sanzionatorio innanzi all'autorità amministrativa, si è replicata anzitutto, nella sostanza, la disposizione del secondo periodo del primo comma dell'articolo 41 della legge n. 689 del 1981, stabilendo che i termini per la notificazione agli interessati degli estremi della violazione (novanta o trecentosessanta giorni, a seconda che l'interessato risieda o meno nel territorio nazionale) decorrano dalla data di ricezione degli atti da parte dell'autorità amministrativa (articolo 102, comma 4, dello schema).

Apparendo implicita nella delega relativa alle norme transitorie quella ad introdurre meccanismi idonei ad alleggerire gli uffici amministrativi (in primis quelli di prefettura, più degli altri coinvolti) dai carichi di lavoro connessi alle violazioni pregresse - condizione, questa, indispensabile al fine di assicurare l'effettività e l'efficacia dei nuovi sistemi sanzionatori, che assumono una rilevanza nevralgica in settori quali quelli degli alimenti, della circolazione stradale e degli assegni - il comma 5 dell'articolo 102 accorda agli interessati la facoltà di richiedere, nei sessanta giorni successivi alla notificazione degli estremi della violazione, il pagamento in misura ridotta ai sensi dell'articolo 16 della legge n. 689 del 1981, o delle speciali discipline di settore, con effetti estintivi del procedimento: e ciò anche quando tale facoltà risultasse esclusa o limitata dalla normativa "a regime". In tal modo, viene prefigurato un meccanismo deflattivo che - anche in rapporto al pericolo di applicazione di sanzioni amministrative accessorie - può contribuire in modo significativo al pronto decollo della riforma.

In ogni caso, però, l'imponente massa di procedimenti destinata ad essere trasferita all'autorità amministrativa e le conseguenti gravi difficoltà che gli uffici deputati all'applicazione delle sanzioni inevitabilmente incontreranno nel gestire il flusso di documentazione e nell'addivenire ad una tempestiva conclusione del procedimento sanzionatorio, hanno consigliato di sancire espressamente, nella fase transitoria, l'esclusione di ogni forma di responsabilità contabile per i casi di prescrizione della sanzione o del diritto alla riscossione delle somme dovute a titolo di sanzione amministrativa (articolo 102, comma 8).

Viene per il resto confermata l'applicabilità delle disposizioni della legge n. 689 del 1981, in quanto non derogate da quelle del presente decreto e con esse compatibili.

Per quanto attiene alla riscossione delle sanzioni amministrative relative ai reati depenalizzati, essa resterà regolata - anche a fronte dello specifico rinvio "alle norme previste per l'esazione delle imposte dirette", contenuto nel primo comma dell'articolo 27 della legge n. 689 del 1981 - dalle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, come modificate dal decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (disposizioni che, peraltro, in base agli articoli 17 e 18 del medesimo decreto n. 46, disciplinano attualmente in via generale la riscossione coattiva delle entrate pubbliche).

L'articolo 103 del decreto si occupa della identificazione degli uffici ai quali deve essere inviato il rapporto della violazione previsto dall'articolo 17 della legge n. 689 del 1981.

Tale identificazione viene demandata ai singoli ministeri od enti cui il presente decreto legislativo [in ossequio all'articolo 16, comma 1, lettera c), della delega] riconosce la competenza ad irrogare le sanzioni amministrative inerenti agli illeciti depenalizzati, con la precisazione che, riguardo ai ministeri, dovrà provvedersi mediante decreto dei singoli Ministri da adottare entro trenta giorni dall'entrata in vigore del decreto legislativo e da pubblicare (ai fini di garantire una opportuna conoscibilità agli operatori pratici) nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Discostandosi dai precedenti interventi di depenalizzazione - nel cui ambito non venivano peraltro individuati direttamente i diversi ministeri competenti per gli illeciti depenalizzati - si è preferito infatti non utilizzare, ai fini indicati, lo strumento del regolamento, la cui adozione comporta necessariamente tempi più lunghi, incompatibili con la necessità di un pronto ed efficiente avvio del sistema sanzionatorio, oltre che, comunque, una certa non auspicabile rigidezza del sistema.

L'articolo 104 detta una norma transitoria correlata al conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed agli enti locali previsto dalla legge delega 15 marzo 1997, n. 59. Conformemente al meccanismo prefigurato dall'articolo 7 di tale legge, si stabilisce che, in rapporto alle funzioni ed ai compiti conferiti dai decreti legislativi emanati in attuazione della legge stessa, la competenza ad applicare le sanzioni amministrative per le violazioni depenalizzate dal presente decreto legislativo spetti alle regioni ed agli enti locali a decorrere dalla data di effettivo trasferimento delle risorse a norma del citato articolo 7. Si precisa, altresì, che le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano sono competenti ad applicare, secondo i rispettivi ordinamenti, le sanzioni amministrative relative alle funzioni loro attribuite.

Da ultimo, l'articolo 105 differisce l'entrata in vigore di alcune disposizioni recanti modifiche alla disciplina sanzionatoria concernenti gli assegni, strettamente collegate alla piena operatività del nuovo sistema che fa perno sull'archivio informatico degli assegni e delle carte di pagamento irregolari. L'istituzione di tale archivio presso la Banca d'Italia interessa, per vero, l'intero sistema bancario italiano, il quale dovrà necessariamente adeguarsi alla nuova disciplina attraverso l'introduzione di specifiche procedure, che potranno peraltro essere definite solo a seguito dell'emanazione del regolamento previsto dall'articolo 36, comma 2: donde la necessità di accordare alle banche ed agli altri enti tenuti alle segnalazioni un congruo periodo di tempo per adattare i propri sistemi informatici alle esigenze indotte dal mutato panorama normativo. Per questa ragione, si è ritenuto di dover portare a centocinquanta giorni il termine per la piena efficacia delle disposizioni connesse all'istituzione dell'archivio, termine che decorre dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del citato regolamento.

Non si è ritenuto di dover dettare, per converso - come pure suggerito dalla Commissione giustizia della Camera - specifiche disposizioni transitorie relative ai giudizi di opposizione ad ordinanza-ingiunzione pendenti davanti ai tribunali alla data di entrata in vigore del presente decreto in correlazione alla prevista attribuzione degli stessi alla competenza del giudice di pace, valendo, in proposito, il generale principio della perpetuatio iurisdictionis sancito dall'articolo 5 del codice di procedura civile, come sostituito dall'articolo 2 della legge 26 novembre 1990, n. 353.